GIULIO PIPPI, detto GIULIO ROMANO
DAMA ALLO SPECCHIO
Inizio del 1520 anni
olio su tela (trasporto da tavola), preparazione a tempera
111 х 92 cm
Inv.: 2687
Sul recto, a destra in basso, appare la scritta: «n. 185 DI. RAFAEL: DVRBINO:»
Sul verso è stampigliato il numero di inventario dell’Ermitage 2309 del 1859, e a sinistra la scritta in cirillico «Riportato dal legno su tela da A. Mitrochin. 1840. S. Pietroburgo».
Il supporto ligneo è stato in passato ritagliato in più parti rettangolari; il frammento con la raffigurazione del capo aveva forma di ovale. Gli studi svolti sul quadro nel Museo Puškin all’inizio degli anni trenta hanno consentito di rinvenire alcune tracce di doratura lungo i contorni dell’ovale, elemento che fa ipotizzare che il frammento sia stato inserito in una cornice e per qualche tempo abbia avuto un’esistenza autonoma. Il quadro mostrava anche ampi rifacimenti, soprattutto nell’area inferiore, dove il corpo della donna era velato da un tessuto colore azzurro (dalla descrizione che si trova nell’inventario della principessa di Rossano si può desumere che nel XVII secolo il quadro non fosse ancora stato alterato da interventi pittorici estranei). Nei cataloghi dell’Ermitage si indicava la donna era raffigurata «in drappeggi azzurri e rossi»; successivamente è stata attestata la presenza di strati posteriori di pittura. Il verbale di Labenskij del 17 febbraio 1840, nell’archivio dell’Ermitage, fa luce sulla storia del trasporto del dipinto su tela: «In data di ieri, 16 del mese, è piaciuto a Sua Maestà l’Imperatore durante la sua vista all’Ermitage di ordinarmi personalmente di trasporre senza indugi su una tela comprata dal venditore Noè il quadro di Raffaello, dipinto su legno e raffigurante Beatrice d’Este, registrato come n. 4752, a causa del pericolo incombente di guasti per la sua vetustà…».
Nella collezione di Olimpia Aldobrandini, principessa di Rossano (Roma), il quadro era considerato opera di Raffaello; nell’inventario del 1626 era descritto come «un ritratto di donna ignuda in tavola grande di Raffael d’Urbino del n. 185» (Inv. Olimpia Aldobrandini 1626). Nonostante la brevità della descrizione, non vi sono dubbi che sia qui menzionato proprio il quadro del Museo Puškin, come del resto indica anche il numero «185» conservatosi sulla faccia anteriore. L’attribuzione a Raffaello si è conservata anche in epoca successiva; proprio così il quadro figura nell’inventario del 1682, dove l’opera è descritta con maggior ricchezza di particolari, come «un quadro grande di una Donna in tavola con una mano alzata e con l’altra al petto con un velo che copre dal mezzo in giù di mano di Raffaello d’Urbino alto palmi quattro in circa cornice intagliata come al d.o Inv. A C.a 211 n. 185 e del Sig.r Card. C.a 551» (Inv. Olimpia Aldobrandini 1682).
Dopo la spartizione della collezione della principessa di Rossano tra Giovan Battista Borghese e Giovan Battista Pamphili nel 1682, il quadro, come testimonia il Cavalcaselle (Crowe, Cavalcaselle 1890), passò nella collezione Lambruschini a Firenze, e poi nella collezione di Camillo Pamphili a Roma. Sir Joshua Reynolds nel suo libro dedicato alla vita di Raffaello (Reynolds 1816), scrisse che nella galleria del principe Palestrina a Roma esisteva un ritratto della Fornarina, opera di Raffaello; e nella stessa collezione esisteva un altro suo ritratto, attribuito a Giulio Romano. Il quadro venne acquistato dall’Ermitage con il nome di Raffaello, ma ben presto si stabilì che il suo autore era Giulio Romano. Questa attribuzione viene accettata da tutti gli studiosi; solo Hartt (1958; 1981) ha espresso il dubbio che la figura sia stata eseguita interamente da Giulio Romano; lo studioso riteneva che, in seguito alla partenza dell’artista per Mantova, il quadro, rimasto a Roma, fosse stato completato da Raffaellino dal Colle. Nessun altro condivide questa posizione.
Se nelle descrizioni del XVII secolo riportate sopra manca il nome del personaggio raffigurato, il quadro fece ingresso all’Ermitage come Ritratto della giovane Beatrice d’Este, duchessa di Ferrara, poi venne considerato un ritratto di Lucrezia Borgia. Così esso figura nei cataloghi dell’Ermitage del 1863 (Ritratto di Lucrezia Borgia, figlia di papa Alessandro VII, consorte del duca di Ferrara Alfonso d’Este), ma già nel catalogo del 1869, con rimando a Waagen (1864), il quadro venne pubblicato come un ritratto della Fornarina. Questa attribuzione si basava su una certa somiglianza tra la modella e il ritratto, opera di Raffaello, alla Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma (inv. 2333, G.F.N. E. 62014), la cui copia alla Galleria Borghese di Roma (inv. 355) era tradizionalmente attribuita a Giulio Romano.
Margherita Luti, nota come la Fornarina, era figlia di un fornaio di Siena. Nel XIX secolo venne a trovarsi al centro di un romantico mito creatosi intorno a Raffaello, che vedeva nella sua raffigurazione l’immagine dell’amata, della musa del più grande fra i pittori di tutti i tempi. Alla luce di questi stati d’animo diventa comprensibile la genesi dell’idea di Waagen, che identificava la modella del quadro in esame con la Fornarina. Liphart (1928) nel suo catalogo manoscritto della pittura italiana mise giustamente in dubbio il nome della Fornarina, eppure l’ipotesi proposta da Waagen si dimostrò straordinariamente tenace, e questo nome rimase legato all’opera per oltre un secolo. Nei cataloghi dell’Ermitage si rimarcava che questo ritratto «viene ritenuto anche la raffigurazione di un’altra donna amata da Raffaello».
Il quadro della collezione del Museo Puškin è stato probabilmente dipinto all’inizio degli anni venti del XVI secolo, cioè dopo la morte di Raffaello. La presenza della figura della Fornarina in questo periodo non trova spiegazioni convincenti. Inoltre, un confronto con il già menzionato ritratto di Raffaello di Palazzo Barberini ci conferma che ci troviamo davanti a due diverse figure femminili. Non v’è dubbio, tuttavia, che per dipingere il quadro del Museo Puškin sia stato utilizzato come modello il ritratto di Raffaello, rimasto nella sua bottega e venduto solo dopo la morte dell’artista da Giulio Romano, che amministrava tutti i beni del maestro. La somiglianza tra i due ritratti consiste nei principi comuni della loro struttura compositiva: nella postura di tre quarti della figura, raffigurata fino alle ginocchia e quasi ignuda; le nudità sono velate da un fine tessuto trasparente, che la donna trattiene sul petto con una mano. Un effetto di somiglianza è prodotto anche dallo sguardo delle due persone raffigurate, identico in entrambi i ritratti nonostante la diversità di espressione dei volti. Sul capo della donna ritratta nel quadro del Puškin si vede il medesimo turbante a righe della Fornarina, annodato in modo da lasciar ricadere libere le estremità, e sull’avambraccio lo stesso braccialetto. Nel quadro moscovita si rinviene anche una serie di altri significativi particolari che rivelano il carattere della modella e l’atteggiamento dell’artista nei suoi confronti. Ad esempio, un’allusione al sentimento amoroso è costituita dalla perla, l’anello al dito, da cui, secondo le concezioni rinascimentali, una vena porta direttamente al cuore. Si è ipotizzato che dopo la morte di Raffaello il ritratto della Galleria Borghese fosse rimasto incompiuto nel volto e nello sfondo, e che fosse stato portato a termine da Giulio Romano. Lo conferma anche l’esame del ritratto ai raggi X (Oberhuber 1999, pp. 208-209). Rispetto alla maniera di Raffaello il volto è dipinto con una certa rigidità. Raffaello riprendeva a sua volta lo schema del ritratto di Ginevra dei Benci, di Leonardo da Vinci. L’idea che fosse stato proprio Giulio Romano a finire il ritratto della Galleria Borghese, delinea suggestivamente davanti ai nostri occhi la figura dell’artista che riceve il testimone direttamente dalle mani del maestro, ed è inoltre un elemento particolarmente interessante alla luce del quadro moscovita.
Tuttavia, assumendo come base l’idea di Raffaello – innovatrice per quell’epoca – che delineava un nuovo sviluppo nella ritrattistica, Giulio Romano le diede un ulteriore e sostanziale impulso. L’artista non raffigura la bellissima donna su uno sfondo scuro uniforme, ma la inserisce in un interno di palazzo classico; non è difficile ravvisarvi motivi affini all’arte dello stesso Giulio Romano e da lui impiegati, ad esempio, a Palazzo Maccarani a Roma. La dama è seduta al tavolino da toeletta, ingombro di diversi oggetti che hanno un valore simbolico oltre che legato alla concretezza della quotidianità. Sullo sfondo si vedono una figura di serva e una scimmietta che cammina su una balaustra; questi motivi viventi introducono un’ulteriore nota drammaturgia nel quadro, sembrano dilatarne lo spazio figurativo.
Indubbiamente, il quadro della collezione del Museo Puškin appartiene al novero delle opere da cavalletto più notevoli di Giulio Romano, il cui brillante talento si manifestò nei più svariati campi artistici. La Dama allo specchio è uno dei rari esempi dell’epoca di composizione a soggetto profano. Potrebbe essere stata commissionata all’artista per un matrimonio e dipinta tra il 1520 e il 1524, quando, lasciata Roma, Giulio Romano si trasferì a Mantova per lavorare presso la corte del duca Federico Gonzaga.
L’iconografia del ritratto presenta un particolare interesse. Un tipo analogo di raffigurazione di nudo femminile alla toeletta era caratteristico della scuola di Fontainebleau in Francia, uno dei primi spiccati fenomeni della cultura del manierismo europeo (rilevato per la prima volta da Markova, in Giulio Romano 1989). Giulio Romano aveva legami abbastanza stretti con la Francia, e non vi sono dubbi sul suo influsso sulla formazione e lo sviluppo di questa scuola, alimentata dall’esperienza artistica italiana. Con ogni probabilità, il quadro del Museo Puškin fu il modello che portò a conoscenza di questo tema i pittori francesi, che lo ripresero in tutta una serie di opere imitative; essi svilupparono questa tipologia iconografica, sorta dalla creatività di Raffaello e della sua cerchia più ristretta. È un esempio ulteriore di come l’arte del più dotato e poliedrico discepolo di Raffaello costituisse un importante anello di congiunzione fra la cultura classica romana e le scuole pittoriche nazionali d’Europa che si formarono appunto nel XVI secolo.
Provenienza: Non oltre il 1626 nella collezione Olimpia Aldobrandini, principessa di Rossano, Roma, da dove nel 1682 passò nella coll. Lambruschini, Firenze, e poi nella coll. Camillo Pamphili, Roma; nel XIX secolo appare nella collezione Noè a Bruxelles (?); nel 1839 fu acquistata presso l’antiquario di Monaco I. Noè a Pietroburgo per l’Ermitage; dal 1930 si trova al Museo Puškin.
Materiali d’archivio: Inv. Olimpia Aldobrandini 1626, p. 98 (qui e di seguito: Raffaello); Inv. Olimpia Aldobrandini 1682; Cat. Ermitage 1797, n. 4752; Inv. Ermitage 1859, n. 2309; Liphart 1928, ff. 515-516 (Giulio Romano «une jeune a sa toilette»).
Mostre: 1989 Mantova, Cat. pp. 274-275; 1989-1990 Vienna, Cat. pp. 64-69.
Bibliografia: Reynolds 1816, p. 212 (Raffaello); Somov 1859, p. 31 (qui e di seguito: Giulio Romano; qui: Ritratto femminile); Passavant 1860, II, pp. 361-362 (si riportano notizie sulla provenienza del quadro da antiche collezioni italiane); Cat. Ermitage 1863, p. 20, n. 58 (qui e successivo, presumibilmente: Ritratto di Lucrezia Borgia; il numero si conserva in tutti i cataloghi dell’Ermitage fino al 1916); Waagen 1864, p. 50 (qui e in seguito: Fornarina); Gruyer 1881, I, p. 76, nota (allievo di Raffaello); Bode 1882, vol. XV, p. 9; Crowe, Cavalcaselle 1885, II, p. 382 (edizione in tedesco 1885, p. 307; qui e di seguito: Giulio Romano); Crowe, Cavalcaselle 1891, III, pp. 84-85, nota 1; L. Venturi 1912, pp. 131-132; Cat. Ermitage 1916, p. 9; Venturi 1926, IX/2, pр. 360-361, fig. 293; Berenson 1936, p. 224; Hartt 1958, I, pp. 57- 8, II, n. 114, ill. (Giulio Romano con interventi di Raffaellino dal Colle); Della Pergola 1959, pp. 121-122 (come appartenente all’Ermitage); Nicco Fasola 1960, pp. 64-65, fig. 5; Berenson 1968, I, p. 197, II, tav. 321 (Dama allo specchio); Hartt 1981, pp. 57-58, fig. 114; Raphael Urbinas 1983, pp. 23, 25 («Versione della Fornarina Barberini»); Markova, in Giulio Romano 1989, pp. 274-275; Battisti, in Giulio Romano 1989, p. 21, fig, 1-4; Béguin, in Giulio Romano 1989, p. 60, fig. 22; Ferino Pagden, in Giulio Romano 1989, p. 229, fig. 8; Furstenhofe der Renaissance 1989, p. 64, n. II/82; Markova 1992, p. 166, ill.; Cat. Museo Puškin 1995, pp. 94-95, ill.; Hall 1999, pp. 71-72, fig. 49; Fornarina 2002, p. 49; Markova 2002, I, pp. 191-195, n. 109.